A bordo della Petromax Arctica,
stretto di Juan de Fuca, British Columbia

Quando, negli anni ottanta e novanta le città di Seattle e Vancouver iniziarono a espandersi grazie all’immigrazione dai paesi asiatici e alle aziende specializzate in tecnologie che sembravano nascere come funghi nei garage e nelle cantine, venne prestata molta attenzione a che l’ambiente incontaminato del Pacifico settentrionale rimanesse per quanto possibile intatto. A differenza delle megalopoli che si estendono da Boston a Washington DC, il cui ambiente è ormai alterato per sempre da due secoli di urbanizzazione, la regione del Puget Sound era ancora vergine, fatta di foreste selvagge, montagne maestose e acque limpide e fredde che nutrivano e soddisfacevano tanto i pescatori quanto gli amanti della vita all’aria aperta. Piante e animali vi crescevano liberamente, soprattutto nel bacino del Sound, abitato da enormi balene e da gruppi di otarie giocherellone. I banchi di crostacei della zona di Seattle erano diventati famosi ed erano ricchi e abbondanti anche dopo tanti anni di sfruttamento. Le foreste offrivano dimora a daini, castori e a decine di altre specie selvatiche. Persino gli ambientalisti più integralisti consideravano quella zona come un modello di integrazione sostenibile tra ecologia e attività produttive.

Nel punto in cui il mare ruggisce tra l’Isola di Victoria e la terraferma, a qualche chilometro dalla città di Port Angeles, la superpetroliera Petromax Arctica se ne stava goffamente appoggiata sull’acqua con la pancia gonfia per le duecentomila tonnellate di greggio che trasportava, con i parapetti che sembravano vicinissimi alle onde che si infrangevano contro la fiancata. Sebbene fosse abbastanza frequente avvistare delle petroliere nello stretto, certamente un colosso di quelle dimensioni era alquanto insolito. Non era la sua presenza a suscitare qualche tensione, ma se mai il filo di fumo che usciva dal fumaiolo quadrato. La potenza dei motori era al minimo per consentire di rimanere in assetto mentre la marea fluiva all’interno del bacino del Sound.

Nell’ultimo quarto di secolo si erano verificati diversi incidenti alle superpetroliere, i più famosi dei quali sono stati quello della Exxon Valdez, quello della Amaco Cadiz e quello della Torrey Canyon, e molte grandi navi sono andate distrutte a causa di tempeste o incidenti meccanici. Nell’arco di un solo mese nel 1969 tre petroliere della stazza di oltre duecentomila tonnellate erano affondate o avevano subìto danni gravissimi, mentre pochissime navi non legate all’industria petrolifera avevano subìto incidenti di quel genere. È vero che le cause del disastro possono variare, ma è raro che un singolo errore possa far affondare una di quelle enormi creature. Per farle scomparire tra i flutti è necessario che concorrano diversi fattori, quali le condizioni atmosferiche, un errore umano o un errore nella progettazione. Fino a che lo Space Shuttle non permise di mettere a punto un numero elevato di sistemi di back up e di sicurezza, progettati per evitare che quel genere di disastri si potesse verificare proprio nelle acque del Puget Sound.

Il piano di Ivan Kerikov prevedeva che la distruzione della petroliera avvenisse subito dopo la cancellazione della sua vendita alla Souther Coasting & Lightering, ma dato che la nave azzoppata non ce l’avrebbe fatta ad arrivare fino alla Baia di San Francisco, il tappo era stato fatto saltare con qualche giorno di anticipo, un dettaglio di poco conto che avrebbe alterato solo in piccola parte l’esito dell’operazione. Il valente comportamento del capitano Hauser era riuscito solo a far spostare l’obiettivo su Seattle. Anche se non era una città sentimentale come San Francisco, si trattava comunque di un ecosistema particolarmente fragile sul quale la fuoriuscita del petrolio avrebbe comunque causato danni spaventosi a tutta la costa.

Il compito di JoAnn Riggs era quello di assicurarsi che si riversasse in mare quanto più petrolio possibile, facendolo sembrare un incidente. L’uccisione imminente dell’equipaggio e l’arrivo della barca che l’avrebbe recuperata, avrebbero fatto sì che non rimanessero testimoni né alcuna prova che dimostrasse che la più grande dispersione di petrolio in mare era in realtà il frutto di un sabotaggio. La stima più prudente prevedeva che il petrolio avrebbe invaso la costa da Bellingham a Everett, mentre lo scenario migliore prevedeva una marea nera lungo 174 miglia di costa, da Vancouver a Tacoma, una regione fatta di migliaia di insenature, baie, fiordi e isole.

La decisione di dare l’ordine di far uccidere quello che rimaneva dell’equipaggio la metteva in difficoltà. Era un ordine che avrebbe dovuto dare il capitano Albrecht, ma ora era lei la responsabile dell’operazione. Il milione di dollari che avrebbe ricevuto come ricompensa avrebbe certamente lenito il suo rimorso, ciononostante esitava a dare a Wolf l’ordine di esecuzione.

Percependo il suo disagio mentre stava in piedi sul ponte di babordo, Wolf capì che avrebbe dovuto uccidere gli uomini senza aspettare di ricevere l’ordine. Aveva alle spalle talmente tanti omicidi che aggiungerne qualcuno non gli faceva alcun effetto. Ma sentì che stava perdendo il rispetto per la donna che aveva saputo impossessarsi della petroliera con l’abilità di un terrorista consumato. Mentre si voltava per andare, interpretò il silenzio della donna come una tacita approvazione. Anche se era lui a eseguire materialmente l’uccisione, la responsabilità era comunque della Riggs, che era impegnata a raccogliere le energie per portare a termine quello per cui era stata pagata.

Quando aveva fatto costruire la Petromax Arctica Max Johnston aveva voluto sincerarsi che fosse dotata di tutti i dispositivi di sicurezza automatici disponibili per prevenire la fuoriuscita anche di una sola goccia di petrolio. Affondarla intenzionalmente e fare in modo che tutto il carico si riversasse in mare richiedeva lo sforzo congiunto di tutta la squadra di terroristi, a parte Wolf e un uomo che gli faceva da assistente, ognuno dei quali aveva un compito preciso, organizzato con precisione militaresca.

Il grande scafo dell’Arctica era suddiviso in diciotto serbatoi separati, un sistema che aveva non solo la funzione di evitare la dispersione di tutto il carico in caso di falla, ma anche quella di mantenere stabile la nave in caso di mare agitato. Un complesso sistema di valvole e di pompe collegava i serbatoi e serviva a tenere la nave in assetto anche mentre una parte del carico veniva pompata fuori dalla nave. Il computer che monitorava il livello del greggio nei singoli serbatoi evitava che la nave si sbilanciasse anche in caso di forti tempeste, compensando automaticamente in base alle condizioni della nave e del mare.

La Riggs e la sua squadra dovevano escludere il computer e azionare manualmente le pompe, le valvole e i galleggianti che controllavano lo spostamento del greggio. Il computer non avrebbe permesso che si creassero le condizioni per scaricare il petrolio in mare a causa dei controlli meccanici e automatici programmati a livello del sistema di gestione. Solo le mani dell’uomo, spinte dall’avidità o dalla follia, avrebbero potuto agire sui comandi aprendo le valvole anche se il computer chiedeva che venissero chiuse. La morale binaria della macchina svergognava miseramente quella umana.

La prima parte del piano per scaricare il greggio dell’Arctica prevedeva l’utilizzo della condotta di ingresso dell’acqua di mare situata a poppa. Il tubo aveva un diametro di quasi un metro, e veniva utilizzato insieme alle pompe di carico per far entrare l’acqua di mare nei serbatoi durante le fasi di pulizia o di zavorramento. Per consentire l’uscita del carico attraverso la condotta dell’acqua era necessario aprire una serie di otto valvole doppie. La gravità avrebbe quindi spinto le duecentomila tonnellate di greggio nella condotta riversandole in mare aperto. Seguendo una logica perversa, la nave alleggerendosi si sarebbe alzata di livello, aumentando la pressione attraverso la bocca di uscita e, una volta salita al di sopra delle linea di galleggiamento, avrebbe generato un getto di cinquanta metri. Solo un sommozzatore che si fosse immerso nella sala comandi dei serbatoi dopo l’affondamento della nave avrebbe potuto esaminare le valvole e smascherare il sabotaggio.

La seconda parte del piano prevedeva che venissero rimossi i coperchi dei serbatoi presenti sul ponte e che venisse usato il collettore per inondare il ponte di greggio. Appena la Riggs fosse stata pronta ad aprire la condotta dell’acqua, i coperchi sarebbero stati rimessi a posto per nascondere le tracce della manomissione. Quindi i terroristi avrebbero incendiato il petrolio sparso sul ponte mentre quello contenuto nei serbatoi veniva disperso in mare. Le squadre di intervento avrebbero perso del tempo prezioso a domare le fiamme sul ponte, ignare del danno ben più grave che si stava verificando nella sala delle pompe. Nella terza fase del piano sarebbero state fatte esplodere delle cariche esplosive nell’intercapedine del doppio scafo, temporizzate in modo che il fondo della petroliera scoppiasse quando una buona parte del petrolio era già in viaggio verso la costa. Se tutto andava come previsto, la causa dell’affondamento della Petromax Arctica sarebbe rimasto un mistero.

Mentre la Riggs rimaneva in attesa nella sala comandi delle pompe, alcuni dei suoi uomini si infilavano nel labirinto delle cavità del doppio scafo per posizionare l’esplosivo, e un altro gruppetto toglieva i coperchi di sei serbatoi. Fino a quel momento, i monitor segnalavano che la situazione del carico era regolare. I serbatoi erano pieni e la miscela di gas inerti che doveva impedire che il greggio prendesse fuoco era perfetta.

La Riggs aveva deciso di usare dei walkie-talkie per coordinare le operazioni, ma sembrava che si fossero bloccati tutti nello stesso momento, e dalle squadre operative non le giungeva neanche un bisbiglio. Pensò che fosse un problema di batterie, e non le venne neanche in mente che il segnale poteva essere stato oscurato. Confidando nel piano che avevano frettolosamente preparato, aspettava che arrivasse il momento di disattivare il computer e di azionare le enormi pompe che controllavano il flusso del greggio all’interno della nave.

Appena uno dei coperchi venne rimosso, nella sala comandi suonava un allarme che indicava che il rapporto tra i gas era variato e che la miscela stava diventando pericolosamente esplosiva. A ogni allarme JoAnn Riggs muoveva una serie di interruttori e le valvole spingevano fuori il greggio che usciva gorgogliando, denso e appiccicoso, riempiendo tutte la cavità che incontrava sul suo cammino. Al ritmo di millecinquecento tonnellate l’ora, in pochi secondi le pompe riversarono sul ponte uno strato di parecchi centimetri di petrolio che colava dagli scarichi direttamente nelle acque dello stretto. L’allarme volumetrico che rilevava l’altezza tra il livello a cui arrivava il carico di greggio e il tetto dei serbatoi scattò con una sirena angosciante, ma la Riggs lo ignorò e si occupò di verificare che la vasta superficie del ponte venisse inondata completamente dal greggio di North Slope. La miscela di vapori di petrolio e aria si trasformò in una nuvola assassina formatasi al si sopra della nave. Soddisfatta, fermò la pompa e aspettò che gli uomini rimettessero a posto i coperchi facendosi strada nella melma nera e puzzolente.

Aveva vuotato il greggio di solo sei dei diciotto serbatoi seguendo una sequenza a zig-zag che aveva fatto scricchiolare lo scafo per lo sforzo generato dal carico non più uniforme. Una volta che le cariche esplosive fossero saltate, quello stress aggiuntivo contro la chiglia avrebbe accelerato la distruzione della nave. Nel frattempo, attorno alla sagoma scura dello scafo della Arctica si era già formata una chiazza iridescente, e si vedeva che la linea di galleggiamento era già di qualche centimetro al di sopra della superficie dell’acqua.

La Riggs dette un’occhiata all’orologio. Erano le due e dieci. La barca che doveva andarli a prendere sarebbe arrivata nel giro di qualche minuto. Come se rispondesse ai suoi pensieri, Wolf apparve alle sue spalle e disse: “La barca sta arrivando, è ora di andare.” Il suo accento nascondeva qualsiasi emozione, ammesso che ne avesse, pensò la Riggs.

“Hai finito?” gli chiese, riferendosi all’uccisione dell’equipaggio.

“Sì. Sono tutti morti.”

Come precauzione contro l’eventualità che i corpi potessero essere recuperati o portati a riva dal mare, Wolf e uno dei suoi uomini avevano annegato gli uomini dell’equipaggio dell’Arctica uno per uno, nella piscina di acqua di mare sul ponte del fumaiolo. Li avevano fatti salire fin là uno alla volta, li avevano storditi con un colpo in testa e poi li avevano tenuti sott’acqua fino a che non erano morti. Per ucciderli tutti e ventiquattro ci era voluto molto più tempo del previsto.

La Riggs e Wolf rimasero in attesa senza parlare per qualche minuto, lasciando agli altri il tempo di sistemare i coperchi dei serbatoi. Quando il suo orologio superò le due e venti, aprì manualmente le valvole che collegavano la condotta di ingresso dell’acqua di mare con le linee principali di alimentazione dei serbatoi. Quando le ultime valvole furono aperte, la pressione del petrolio che fluiva nel tubo era una presenza palpabile all’interno del locale. Si sentiva un rumore continuo che sembrava quello di una locomotiva che passa in una galleria interminabile. Nel punto in cui le tre linee confluivano nell’arteria principale del diametro di un metro quel torrente produceva un frastuono continuo. Il greggio cominciò a uscire dalla nave come il sangue che sgorga da una ferita mortale.

La Riggs sorrise. “Andiamocene da questa bara galleggiante. Devo fermarmi e usare la radio per completare la simulazione dell’incidente e recitare la parte della vittima che sta per morire, e poi ce ne andiamo.”

La conversazione tra Mercer e Kruthcfiled sulla questione del coinvolgimento di due civili nell’operazione di liberazione della Petromax Arctica venne sospesa quando videro il petrolio che appariva in superficie attorno alla poppa della nave. La brezza portava l’odore pesante e acre anche a quella distanza.

Madre de Dios” mormorò il SEAL di origine ispanica facendosi il segno della croce.

“Non hanno aspettato che arrivasse la barca” disse Kructhfield constatando l’evidenza. “Siamo arrivati tardi.”

“Forse no” disse Mercer deciso. Guardò Hauser, che a sua volta guardava sconvolto la nave ferita. “Capitano?”

“Non lo so” disse Hauser dopo un po’. “Non sono in grado di valutare la gravità della situazione, devo salire a bordo. Sembra che abbiano invertito l’aspirazione di acqua di mare e stiano usando la condotta di ingresso come uno scarico, o forse hanno aperto una falla, non lo so.”

La poppa della Arctica era rivolta verso l’oceano e la prua puntava verso est all’interno del Puget Sound. Il cabinato navigò lungo la fiancata fino al punto in cui dal parapetto di babordo penzolava una scala di corda. Come un iceberg che nasconde i quattro quinti del suo volume sott’acqua, le reali dimensioni della nave non erano percepibili nemmeno da così vicino. La fiancata, nera come la morte e liscia come il vetro, sembrava non avere fine mentre Kruthcfield guidava la Happyhour verso la scala. Sembrava impossibile che una creatura di quelle dimensioni potesse essere fabbricata dalle mani dell’uomo, e per di più Mercer e gli altri ne vedevano solo una parte. Sotto di loro, lo scafo sprofondava nell’abisso per sessanta piedi, l’equivalente di un palazzo di sei piani.

A poppa, Mercer si voltò a contemplare l’imponente mole della petroliera alle sue spalle. Gli ricordava le immagini della Grande muraglia cinese, interminabile e smisurata. Una visione agghiacciante. Lo scafo era già completamente attorniato da uno spesso strato di petrolio denso e malsano.

“Attaccatevi!” gridò una voce che giungeva dal parapetto dell’Arctica, così in alto che l’uomo che aveva gridato era solo una sagoma indistinta. “Stiamo venendo giù.”

Kructhfield e i due SEAL rimastigli avevano indossato delle cerate gialle per nascondere l’uniforme, e sembrava che lo stratagemma avesse ingannato il terrorista. Subito dopo i SEAL iniziarono a salire lungo la scala penzolante con le armi nascoste sotto le giacche.

“No, tornate giù, abbiamo già finito” gridò l’uomo dal parapetto, mentre le sue parole si perdevano nel vento che si incanalava nello stretto di Juan de Fuca.

Krutchfield ignorò l’ordine e continuò a salire senza fatica, agile e veloce, con i due uomini che lo seguivano muovendosi all’unisono, con una precisione e una sincronia che li faceva apparire come un unico organismo. Prima di muoversi, Mercer si prese un attimo di pausa, sentendo Hauser dietro di lui, pronto a seguirlo. Al capitano ormai non importava che la Riggs o qualcuno dei terroristi lo riconoscesse. La Petromax Arctica era la sua nave, ancora formalmente sotto il suo comando, e lui avrebbe fatto tutto ciò che era necessario per evitarne la distruzione. Quando Mercer era arrivato a tre quarti della scala, Krutchfield era già in cima e si issò oltre il parapetto per salire sul ponte. A Mercer vennero in mente le scale di corda sulle quali si arrampicava da bambino nelle cave di granito di Barre, nel Vermont, dove era cresciuto. Era agile come una scimmia, e allora non sentiva certo il peso della paura che in quel momento gli attanagliava lo stomaco e irrigidiva ogni singolo muscolo del suo corpo. Sopra di lui, anche l’ultimo SEAL era scomparso dietro il parapetto. Continuò a salire, senza avere un’idea di cosa lo aspettava.

D’un tratto sentì uno scossone e la scala dondolò così violentemente che Mercer si fermò a controllare se Hauser, sotto di lui, non fosse in difficoltà. Vide il capitano che, dal basso, scuoteva la scala per attirare la sua attenzione. Mercer guardò verso l’alto appena in tempo per vedere uno dei SEAL volare fuori bordo. Dopo una frazione di secondo gli arrivò il rumore di uno sparo.

Il corpo senza vita del SEAL sudamericano volò in picchiata e cadde violentemente in acqua, disegnando un contorno di schiuma bianca che sembrava il segno del gesso che la polizia traccia sull’asfalto attorno alle vittime degli incidenti. Mercer estrasse la pistola dalla cintola mentre sopra di lui si scatenava una sparatoria. Non poteva rimanere dov’era, esposto e vulnerabile, e anziché tornare giù preferì continuare a salire per sbirciare oltre il parapetto e rendersi conto della situazione.

Il ponte era deserto, ad eccezione di una manciata di bossoli che rotolavano sulla superficie metallica, dai quali usciva un filo di fumo che irritava il naso ancor più dei vapori di petrolio. Sul ponte si vedevano delle strisce di sangue che conducevano a una botola chiusa.

Il rumore improvviso di una voce metallica fece sobbalzare Mercer che rischiò di perdere l’equilibrio. “Devil Fish chiama Mud Skipper. Passo.”

Si era dimenticato che aveva tenuto lui il contatto con il Tallahassee. Infilò la pistola sotto l’ascella per liberare una mano e tirò fuori la radio. “Qui Mud Skipper. La situazione è… Merda. Non ne ho idea. Rimanete in attesa, vi richiamo tra poco.”

Rimise la radio nella tasca del giubbotto e rotolò sul ponte, riparandosi nella struttura cava dell’argano del battello di salvataggio di babordo, che lo riparava su tutti i lati.

Il dolore che aveva patito nelle ultime ore, l’agonia dei colpi ricevuti, degli spari, il rischio di annegare e di bruciare vivo erano dimenticati. L’adrenalina, la droga naturale per la quale negli anni aveva sviluppato una vera e propria dipendenza, gli scorreva nelle vene acuendo i sensi e la mente. In quel momento Mercer era una macchina a cui non importava di niente.

“Hauser, si muova. Non c’è tempo” disse, correndo oltre la scala.

Mentre Hauser guadagnava il ponte Mercer colpì con una spallata la porta di accesso al castello della superpetroliera. La pesante anta colpì la parete subito dietro aprendosi su un corridoio. Tre metri più in là una massa scura si rivelò essere il corpo di uno dei terroristi, col petto squarciato da una raffica delle armi automatiche in dotazione ai SEAL. Mentre Mercer si chinava a recuperare la pistola abbandonata accanto al cadavere, Hauser lo raggiunse. L’aria era impregnata dell’odore del petrolio che sembrava solidificarsi in gola e che irritava gli occhi.

“Dobbiamo raggiungere la sala delle pompe” disse Hauser con la voce che rimbombava nel corridoio deserto, alterata dalla paura e dalla tensione.

In lontananza si sentiva il sibilo degli spari. Sul ponte sotto di loro si era scatenata una violenta sparatoria.

“Di qua non ci arriviamo” disse Mercer, intuendo che avevano la strada bloccata.

“Possiamo arrivarci passando dall’altro lato della nave, ma dobbiamo tornare fuori e attraversarla passando dal ponte del fumaiolo. Mi segua, la guiderò io.”

“No, stia dietro di me. Non possiamo rischiare che lei venga colpito in un’imboscata. Mi darà le indicazioni a voce.” Mercer stava già tornando di corsa verso la via da cui erano venuti, con entrambe le pistole in pugno, come un pistolero del Far West.

Hauser lo guidò su per diverse rampe di scale, e a ogni passo rischiavano di scivolare. Sul ponte inferiore passarono accanto alla zona che ospitava la mensa, la biblioteca, il teatro e la dispensa. Hauser si fermò per dare un’occhiata alla mensa e vedendola vuota il suo sguardo si fece cupo, perché temeva il peggio per i suoi ragazzi. Passando dal ponte del fumaiolo attraversarono la nave in tutta la sua larghezza. Da lassù, a più di venti metri sopra la superficie dell’acqua, Mercer vide che la chiazza di petrolio si stava allargando come un cancro attorno alla nave. Non era in grado di stabilire quanto greggio fosse già stato disperso. Anche una sola goccia era comunque troppo. Un’onda piuttosto alta che rotolava davanti allo stretto di Juan de Fuca incontrò la resistenza della marea nera e si infranse al di sotto del pesante strato di petrolio, increspando appena la superficie lucida e oleosa. I due uomini si precipitarono in fondo al ponte. Hauser stava attaccato alle calcagna di Mercer che si destreggiava in mezzo a tubi, ripostigli per gli attrezzi e macchinari, e quasi gli cadde addosso quando questi si fermò a pochi passi dalla piscina. I cadaveri degli uomini di Hauser galleggiavano nell’acqua come giocattoli abbandonati. Quella visione spettrale paralizzò i due uomini per secondi che sembrarono secoli, lasciandoli muti e attoniti davanti all’orrore che stavano contemplando.

“Voglio che paghino, Mercer, voglio che paghino caro per quello che hanno fatto…” Hauser stentava a trovare le parole mentre guardava quello che restava del suo equipaggio. Lacrime di rabbia e di frustrazione gli rigavano le guance nonostante stesse lottando per tenere a bada le emozioni.

“È quello che voglio anch’io” sussurrò Mercer. Non importava quante volte aveva visto la morte in tutte le sue vesti: non riusciva a farci l’abitudine, era più forte di lui. Era scosso tanto quanto lo era il capitano Hauser. Si aprì una porta laterale e Mercer vide subito che i vestiti dell’uomo che si stava affacciando non erano quelli dei SEAL. Scaricò entrambe le pistole in rapida successione, sparando otto colpi più in fretta che poté. Sei proiettili colpirono l’uomo squarciandogli la parte superiore del corpo. Morì prima ancora di riuscire a mettere piede sul ponte.

Molto sotto alla linea di galleggiamento, nella chiglia della Petromax Arctica, i microscopici difetti di saldatura cominciavano ad allargarsi in crepe più profonde per lo sforzo del carico sempre più sbilanciato. La nave sembrava emettere un lamento, come una grande quercia esposta alla violenza del vento, prodotto dal metallo che dilaniava altro metallo, in un rimbombo sinistro che aleggiava su tutto lo stretto. L’Arctica era sul punto di spaccarsi.

“Andiamo. Dobbiamo impedire che questa nave si spezzi in due.”

Hauser guidò Mercer fino al bordo anteriore del castello, sopra il ponte di comando. Entrambi rimasero interdetti. Si aspettavano di trovarsi davanti la vernice rossa del ponte lungo quanto tre campi da calcio, e invece vennero accolti da una distesa di greggio melmosa e puzzolente di greggio dalla quale emergevano solo la passerella che correva lungo tutta la nave e le due torri dei collettori.

“Che storia è?” disse Mercer quando ritrovò l’uso della parola.

“Probabilmente vogliono incendiare la nave. Non gli basta disperdere il carico di greggio, vogliono anche vederla in fiamme.”

In lontananza a poppa, a una distanza di qualche miglio che però sembrava infinita, Mercer intravide la sagoma bianca e slanciata di una lancia della guardia costiera, ma era troppo tardi. Il veleno stava sgorgando dalla petroliera così rapidamente che per quando le autorità fossero riuscite ad arrivare, le acque vergini del Puget Sound sarebbero già state inquinate da decine di migliaia di tonnellate di petrolio.

“Dobbiamo chiudere la valvola di aspirazione dell’acqua di mare” gridò Hauser.

“Vada avanti lei” rispose Mercer, e seguì Hauser entrando di corsa all’interno della nave.

Attraversarono i locali dell’equipaggio, entrambi infischiandosene del rischio di un agguato improvviso. Per entrambi l’incontro con uno dei terroristi della Riggs sarebbe stata solo un’occasione per dare sfogo all’odio e alla rabbia che provavano. In fondo a una sala lunghissima si trovarono a un incrocio a T e Hauser girò a sinistra, quindi scesero due rampe di scale. Fino a quel momento la costa era ancora pulita. La nave aveva iniziato a inclinarsi e più scendevano di livello più l’effetto si accentuava, costringendo i due uomini a correre con una spalla addossata alla parete, e man mano che avanzavano l’odore si faceva più pungente.

“Quanto manca?” I polmoni di Mercer stavano bruciando per la combinazione dello sforzo e delle esalazioni chimiche che era costretto a inalare a ogni respiro.

“Dobbiamo scendere di un altro livello” disse Hauser ansimando. “Ci siamo quasi.”

Mercer ripartì stringendo i denti, deciso a non mollare. Dodici ore prima stava lottando per scappare da una piattaforma maledetta e trasformata in una trappola mortale, e ora stava correndo nel ventre di una petroliera altrettanto maledetta e mortale. Non aveva perso il suo senso dello humour, e quell’ironia gli strappò una risata amara.

D’un tratto sentì delle voci che venivano da in fondo alla scala e si appiattì contro la parete per ascoltare. Nel frastuono degli allarmi che suonavano non riusciva a distinguere le parole, ma sentì la voce di un uomo e di una donna, che sembravano ritirarsi verso il corridoio che lui e Hauser erano stati sul punto di imboccare.

Rischiando, girò attorno al pianerottolo e vide due figure che si allontanavano, apparentemente indifferenti alla situazione della nave e alle sirene che squarciavano l’aria. Anche Hauser li vide e stava per lanciarsi contro JoAnn Riggs e quel terrorista di nome Wolf, ma Mercer lo trattenne schiacciandolo contro la parete e guardandolo dritto negli occhi.

“Loro non sono importanti. So come si sente, ma prima dobbiamo salvare la nave. Lei deve fermare la fuga di petrolio.”

Riluttante, Hauser annuì, e i due uomini corsero giù per il corridoio semibuio che conduceva alla sala delle pompe. Il capitano si mise immediatamente al lavoro per rimettere in assetto la nave, azionando le pompe nel tentativo di far risucchiare all’interno della nave l’acqua contaminata. Un tentativo disperato che non gli riuscì. Il peso del greggio rimasto nei serbatoi esercitava una pressione che le pompe non riuscivano a contrastare, e il liquido nero continuava a uscire copioso. Hauser fu costretto a chiudere le doppie valvole sul tubo di scarico da un metro e tutti e tre i tubi più piccoli riuscendo ad arrestare la perdita di petrolio. Nel frattempo Mercer cercava di disattivare gli allarmi. Il frastuono stava diventando insopportabile.

“Come va?” chiese Mercer gridando per farsi sentire. Hauser stava lavorando freneticamente, spostandosi da una postazione all’altra, facendo scattare interruttori, spostando leve e controllando i display per poi tornare al computer e scorrere i menu muovendo il mouse con una rapidità impressionante.

“Penso che possiamo farcela. Sto cercando di ridistribuire il carico nelle stive e di riequilibrare la nave.” Hauser guardò Mercer con un’espressione molto seria. “Se fossimo arrivati un minuto più tardi non avrei potuto fare niente e la nave si sarebbe spezzata.”

Senza preavviso, l’atmosfera nella sala pompe si fece elettrica, come se fosse stata attraversata da una scossa. Le pareti e il soffitto in metallo furono investiti da una raffica di proiettili da 9 mm che si frantumarono in mille pezzi che invasero la sala come uno sciame inferocito. Sopra il sibilo lacerante dei proiettili si udirono due colpi più forti, provenienti da un’arma più potente. Mercer venne risparmiato grazie al riparo fornitogli da un armadio metallico dove venivano conservati i campioni di greggio prelevati durante il carico. Hauser no.

Il capitano fu investito da una raffica in piena schiena e subito delle chiazze rosse si formarono sul giubbotto, in corrispondenza dei fori delle pallottole. L’uomo fece un balzo in avanti, urlando. Andò a sbattere contro un tavolo, rimase in equilibrio per un secondo per poi crollare sul pavimento, contorcendosi come in preda alla convulsioni.

Mercer si infilò dietro l’armadio appena in tempo per vedere spuntare dalla porta una sagoma scura e sparare un colpo troppo lento per fare centro. Si sporse dalla soglia per dare un’occhiata e per un pelo non si ritrovò con la gola tagliata. Era il tenente Krutchfield, con la faccia sporca e macchiata di sangue. Sulla divisa si vedevano dei fori insanguinati e il giubbino di Kevlar aveva l’aria di essere stato calpestato da una mandria di bufali. Il coltello che teneva appoggiato alla gola di Mercer aveva tracciato una sottile linea di sangue, prima che il SEAL si accorgesse che stava per uccidere uno dei buoni e bloccasse il movimento.

“L’ho quasi preso quel figlio di puttana, ma ho finito le munizioni.”

Nell’altra mano Krutchfield teneva in pugno la pistola scarica e ancora fumante. “Pensavo che lei fosse la sua copertura.”

“Cristo, aveva appena mitragliato a raffica dentro la stanza” disse Mercer con la voce alterata dalla paura. “Pensa che avrebbe sparato al suo uomo?”

“Mi dispiace” rispose Krutchfield impallidendo rapidamente. “Sono un po’ a pezzi e forse non riesco a essere molto lucido.”

“Oh, merda. Lei ha perso molto sangue.” Mercer lo condusse all’interno della sala pompe e lo fece sdraiare per terra accanto a Hauser. Il capitano ora si lamentava sommessamente. Mercer non riusciva a capire se era in stato di shock. “Krutchfield, l’altro uomo che era con lei è ancora vivo?”

“Non credo. Siamo stati assaliti brutalmente appena siamo saliti. Erano almeno in sei lì ad aspettarci. Ci siamo separati e ci siamo lanciati all’inseguimento. Devo ammettere che non è stata una grande idea” rispose il SEAL.

“Faccia in modo di campare per potersene pentire.” Mercer controllò le munizioni delle sue due pistole, unendo i due mezzi caricatori in modo da avere una sola arma completamente carica.

“Rimanga con Hauser, faccia quel che può per aiutarlo. Ho visto una lancia della guardia costiera che veniva verso di noi, probabilmente è stata chiamata da Devil Fish. I soccorsi saranno qui a momenti.”

Mercer era già uscito dalla sala ma Krutchfield lo chiamò. “Stia attento a quell’uomo. Ce l’avevo sotto tiro quando ho premuto il grilletto, ma quando è arrivato il proiettile lui si era già spostato. È lo stronzo più veloce che abbia mai visto.”

“Grazie” disse Mercer, anche se la raccomandazione era del tutto superflua.

Nel corridoio, Mercer si soffermò a esaminare la scia di sangue che imbrattava il ponte. Forse il terrorista scampato agli spari non era più così veloce. Mercer seguì la traccia tenendo la pistola in pugno e cercando di ripararsi come meglio poteva. La scia conduceva fuori dalla sovrastruttura, e Mercer accelerò il passo intuendo che il terrorista era più interessato a fuggire che a portare a termine quello che aveva cominciato nella sala delle pompe.

Alla fine sbucò in un corridoio illuminato dalla tenue luce del sole che filtrava attraverso finestre rettangolari dalla forma allungata, e capì che il terrorista non era diretto verso la scala di corda. Erano usciti sul ponte principale sul lato opposto della nave, molto più avanti rispetto al punto in cui avevano lasciato la scala a penzoloni. Era a poca distanza dal ponte principale e sentiva il calore che irradiava dal petrolio di cui era ricoperto. Quando era stato estratto dal sottosuolo a Prudhoe Bay il greggio aveva una temperatura di 50°C e conservava ancora buona parte di quel calore. Non era certo sgradevole nell’aria gelida di ottobre, ma la puzza era rivoltante e così forte che si vedevano i vapori esalare dallo strato melmoso.

Sulla vasta superficie del ponte principale si distinguevano le impronte lasciate dall’ultimo degli uomini di JoAnn Riggs. Il petrolio le aveva ricoperte quasi del tutto, ma erano ancora ben visibili. In lontananza, dopo le torri dei collettori, si vedeva una sagoma che correva zoppicando ma con un’andatura veloce nonostante la superficie scivolosa.

Mercer si precipitò sulla passerella metallica sopraelevata che correva al centro del ponte, sperando che la superficie asciutta gli avrebbe permesso di essere più veloce.

Con grande sorpresa e con enorme gratitudine trovò una vecchia bicicletta arrugginita appoggiata a un traliccio, che serviva all’equipaggio nelle operazioni di routine per portarsi velocemente a prua. Non era cosa insolita trovarne qualcuna a bordo delle petroliere. Nel giro di pochi secondi aveva guadagnato un bel po’ di strada.

Wolf era certo di aver sentito delle voci quando lui e JoAnn Riggs avevano lasciato la sala delle pompe e mentre si allontanavano gli era sembrato di sentire lo sguardo di qualcuno sulla nuca, ma non si era voltato per controllare. Fu solo dopo che lui e la Riggs avevano raggiunto il ponte principale e dopo aver visto la carneficina dei suoi uomini che aveva deciso di tornare all’interno della nave e far fuori chi gli stava mettendo i bastoni fra le ruote, chiunque fosse. Intanto la Riggs aveva proseguito verso la scala per salire sulla barca. Wolf sapeva che la sala delle pompe era l’obiettivo più logico per un contrattacco e che era l’unico luogo dal quale era possibile evitare la completa distruzione della nave.

Mentre correva sul ponte nonostante la coscia dolorante per il colpo sparatogli da Krutchfield, si rese conto che tornare indietro era stato un errore gravissimo, forse fatale. Aveva ignorato il suo addestramento e aveva ceduto all’emozione. Anche se la distruzione della Petromax Arctica era stata evitata, lui aveva comunque fatto il suo lavoro, ma aveva voluto tornare nella sala delle pompe e questo gli era costato una ferita grave.

Stava correndo verso prua, augurandosi che il SEAL che gli aveva sparato lo stesse seguendo. Se doveva morire su quella nave maledetta, sperava almeno di avere l’occasione di tirare giù uno degli americani.

Wolf si voltò a guardare, sperando di vedere il SEAL che lo inseguiva, e con la coda dell’occhio vide un pazzo che stava correndo verso di lui in sella a una bicicletta sulla passerella sopraelevata, proprio sopra la sua testa. Buttò l’arma ormai scarica sul ponte e dalla tasca dei pantaloni da lavoro tirò fuori una torcia rivestita di cera che aveva tenuto in tasca sin dall’inizio dell’operazione. Wolf era incaricato di incendiare il petrolio sparso sul ponte subito prima che lui, la Riggs e il resto della squadra abbandonassero la nave.

Mercer spinse la bicicletta oltre uno stretto pianerottolo e in quel momento vide che l’uomo sotto di lui si voltava e gettava la pistola. Lasciò cadere la bicicletta sul ponte e prese la mira puntandogli contro la pistola. Prima che riuscisse a mettersi in posizione il terrorista agitò la mano destra dalla quale spuntava una fiamma rossa che emetteva una scia di fumo.

“Butta la pistola o faccio incendiare tutta la nave” gridò Wolf all’uomo sulla passerella, convinto che si trattasse di uno dei SEAL.

“Non farlo. Butta la torcia fuori bordo” contrattaccò Mercer. Wolf stava in piedi in uno strato di almeno cinque centimetri di greggio che copriva i quindicimila metri quadri del ponte. Dietro di lui, da una botola chiusa male il greggio continuava a uscire sul ponte gorgogliando.

Duecentomila tonnellate di greggio altamente esplosivo. Duecento chilotoni. Mercer sentì che stava per morire e si chiese se la forza esplosiva di una tonnellata di TNT era maggiore o minore rispetto a una tonnellata di petrolio. Si ricordò che Hiroshima era stata rasa al suolo con l’equivalente di venti chilotoni. Anche se il TNT e il petrolio non erano esattamente la stessa cosa, si trovava comunque in piedi su una bomba molto più potente di Little Boy. Cercò di ricordare cosa aveva detto Hauser circa i gas presenti nei serbatoi. Perché l’aria là dentro doveva essere mantenuta inerte? Il fatto che Mercer non riuscisse a ricordare cosa c’era nel greggio che rendeva così cruciale la composizione dell’aria dei serbatoi era un segno evidente di quanto fosse sfinito.

“Invece lo farò” rispose Wolf gridando, facendo dondolare la torcia in un movimento ipnotico come quello della danza di un serpente a sonagli, “non fosse altro che per essere sicuro che tu morirai con me.”

Mercer strinse la pistola, puntando al petto di Wolf. Poi ricordò. Il greggio diventa combustibile solo se i rapporti tra i gas hanno valori ben precisi. Bruciava solo se l’ossigeno era all’undici per cento. Al di sopra e al di sotto di quel valore la miscela non era combustibile, a meno che non venisse preriscaldata. Sperando che i valori dei gas fossero dalla sua parte e senza pensarci due volte Mercer sparò tre raffiche ravvicinate. I proiettili da 9 mm squarciarono la spalla di Wolf e il braccio cedette, penzolando sul fianco senza vita, attaccato solo a qualche brandello di carne. La torcia, la cui fiamma aveva una temperatura di qualche centinaio di gradi, cadde dalla mano inerte sprofondando nello strato melmoso.

Wolf gridò per il dolore e cadde in ginocchio e vide accanto a sé la fiamma che si staccava dall’estremità della torcia. Cercò di alzarsi, ma la ferita alla gamba e la spalla squarciata glielo impedirono e si sbilanciò in avanti cadendo a faccia in giù nella melma nera, senza riuscire a risollevarsi. In pochi secondi era annegato.

Subito dopo aver sparato, vedendo che Wolf aveva lasciato cadere la torcia, Mercer saltò giù dalla passerella. Anche se la fiaccola non aveva incendiato il petrolio, non era il caso di sfidare la sorte. Atterrò sul ponte e i piedi e le gambe gli scivolarono via facendogli picchiare violentemente il fondoschiena. Un dolore lancinante gli salì lungo la schiena fino al cranio. Strisciando e scivolando nella melma nera raggiunse la torcia e la sollevò sopra la testa mentre dense gocce di petrolio incendiato gli colavano addosso. Usò la mano libera per spegnere le fiammelle gialle che si erano attaccate ai vestiti e si mise faticosamente in piedi aggrappandosi alla ringhiera. Lanciò la torcia nelle acque dello stretto, più lontano che poté dal punto in cui il petrolio usciva dai serbatoi della nave.

“Mud Skipper, qui Devil Fish, rispondete.”

Mercer era appoggiato alla ringhiera e guardava la torcia che crepitava nell’acqua. Non aveva nessuna voglia di rispondere al sottomarino acquattato sotto la nave, ma poco dopo sentì un rumore allarmante. Tirò fuori la radiolina dalla tasca. “Qui Mud Skipper. Vi ascolto.”

“Il sonar ha captato la firma magnetica di un motore, sicuramente è un motore a due eliche e corrisponde a quello del cabinato. Confermate che siete a bordo?”

Mercer guardò verso poppa, oltre il punto in cui il ponte sporgeva dall’immensa fiancata. Oltre la poppa, vide la Happyour che si allontanava a gran velocità verso il mare aperto.

Se Krutchfield e Hauser erano nella sala delle pompe e gli altri SEAL erano tutti morti, così come l’intero equipaggio dell’Arctica, a bordo del cabinato potevano esserci solo i terroristi o JoAnn Riggs.

“Negativo, Devil Fish. A bordo della barca ci sono i terroristi. Riuscite a tirarli giù?”

“Affermativo.”

Il rapido spostamento del sottomarino militare Tallahassee a meno di dieci metri sotto la superficie creò una leggera turbolenza, come se sott’acqua si stesse muovendo un enorme cetaceo. Mercer stentava a credere alla velocità e all’agilità di movimento del sottomarino che si era lanciato all’inseguimento della Happyhour. Senza distogliere lo sguardo, attese l’esplosione del siluro contro la fiancata della barca, ma non ci fu nessun impatto. La Happyhour era solo una macchiolina sull’orizzonte e d’un tratto, a poppa, emerse un enorme leviatano nero.

Come un delfino giocherellone, il muso del Tallahassee balzò fuori nella scia del cabinato emergendo per una decina di metri prima che il peso smisurato del sottomarino frenasse l’inerzia dei motori nucleari facendolo ripiombare in acqua sollevando un turbine di schiuma bianca. Così come era apparso, il Tallahassee sparì improvvisamente sott’acqua creando un enorme gorgo a poppa della Happyhour. Quattromila tonnellate di acqua ripiombarono nella cavità lasciata dal sottomarino che si ritirava dopo la sua breve apparizione. JoAnn Riggs e la barca vennero risucchiate da quel vortice e svanirono senza lasciare traccia. Il cabinato si inabissò così velocemente che un gabbiano che stava planando proprio sopra di esso venne risucchiato e annegò. Dopo pochi secondi la superficie era di nuovo calma e non c’era niente a indicare il punto in cui era morta JoAnn Riggs.

Se non l’avesse visto con i suoi occhi, Mercer non ci avrebbe creduto. Nell’arco di un secondo la barca in fuga verso l’oceano era scomparsa, inghiottita da una creatura terrificante, come Giona nel ventre della balena. Sparita. Per sempre.

“Devil Fish chiama Mud Skipper. Devil Fish chiama Mud Skipper. Missione compiuta. La guardia costiera riferisce che la loro lancia sarà sul posto tra due minuti. Stanno convogliando sul posto tutte le petroliere in rotta nella zona per poter vuotare il carico. Le autorità di Seattle sono state informate della fuga di greggio e le squadre di soccorso stanno arrivando. Noi proseguiamo con la nostra missione.”

Mercer sorrise sentendo la voce gaudente alla radio. Solo più tardi avrebbe scoperto che era proprio la voce del capitano del sottomarino, e tutto sommato non ne fu molto sorpreso. “Ricevuto, Devil Fish. Qui Mud Skipper. Grazie di tutto. Passo e chiudo.” Si mosse per tornare verso il castello di poppa e vide la lancia che si avvicinava per agganciarsi alla petroliera.

Negli otto minuti che restavano prima dell’esplosione, gli uomini della guardia costiera riuscirono a individuare e a disarmare le cariche piazzate nel doppio scafo della Arctica. La marea sulla quale la Riggs e Kerikov avevano fatto affidamento per far arrivare il greggio sulle rive del Puget Sound era più bassa di quanto ci si aspettava per quel giorno, e i cinquanta milioni di litri di greggio riversati in mare, sebbene fossero più di quelli dispersi dalla Exxon Valdez, non bastavano neanche lontanamente a causare la catastrofe ambientale che avevano ipotizzato.

Il capitano Hauser e il tenente Krutchfield furono trasportati in ospedale con un elicottero, e se la cavarono entrambi. C’era solo un altro particolare da sistemare, e Mercer cominciò ad assaporare l’idea di essere riuscito a concludere l’intera faccenda.